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Lettera al giudice Patricia Di Marco

11 luglio 2008 - Paolo Fior
Signor Giudice Di Marco,
leggendo il dispositivo della sua sentenza dell'8 maggio scorso con cui ha condannato Carlo Ruta - storico e giornalista - per il reato di stampa clandestina ho provato alcune sensazioni riguardo a questo Paese che mai mi era capitato di sperimentare. Sensazioni che vorrei provare ad esporLe da cittadino a cittadino, perché al di là della sua funzione specifica, della sua carica, Lei come me è innanzitutto un cittadino di questa Repubblica.
E' giusto però che Lei sappia innanzitutto che intendo avvalermi del diritto di libera espressione del mio pensiero  con ogni mezzo di diffusione (art. 21 della Costituzione): intendo avvalermene in prima battuta scrivendoLe questa email che non resterà confinata a un rapporto epistolare tra me e Lei, ma - contestualmente all'invio - raggiungerà enne caselle di posta elettronica oltre la sua e forse verrà pubblicata su enne siti Internet, su enne giornali e trasmessa da enne radio (e perché no, televisioni) e magari affissa su enne muri di enne città e financo volantinata, in quanto ho deciso di dare la massima publicità al mio pensiero nel pieno rispetto delle leggi vigenti.
Camminando per le strade della mia città ogni tanto alzo gli occhi e vedo lapidi che commemorano giovani e anziani, maschi e femmine, che hanno perso la vita per darci la democrazia che abbiamo - perfettibile certo, ma democrazia -, per garantire a ognuno di noi e a chiunque abbia l'avventura di vivere qui ed ora quei diritti fondamentali che sono scritti nella Carta costituzionale. E da cittadino a cittadino, Signor Giudice, Le chiedo rispettosamente quanto di quella Carta sia rispecchiato nella sua sentenza, le cui conseguenze - forse da Lei non calcolate nella loro pienezza (o forse sì?) - rischiano di mettere in mora il diritto di tutti (anche il suo) di poter esprimere liberamente le proprie opinioni con qualunque mezzo.
Le mie scarse conoscenze in materia di diritto mi portano a pensare - sicuramente a torto - che la Costituzione sia fonte superprimaria del diritto, in quanto legge fondamentale, che essa valga per tutti su tutto il territorio nazionale e che, pur non esistendo Internet all'epoca in cui è stata promulgata, Internet stesso e i blog rientrino pienamente nel dettato costituzionale che garantisce appunto a ogni cittadino la possibilità di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo.
Lei, evidentemente, la pensa diversamente e, dall'alto della sua carica di giudice monocratico, sentenzia ciò che mai nell'Italia del Dopoguerra è stato sentenziato, tanto più nei confronti di chi si firma con nome e cognome: Stampa clandestina. Da cittadino che paga le tasse mi chiedo un po' ingenuamente come mai la Pubblica Amministrazione preveda un meccanismo di autotutela che le consente di ammettere pacificamente gli errori evitando onerosi contenziosi (che ricadrebbero peraltro anche sulle spalle dei cittadini danneggiati essendo la Pubblica Amministrazione stipendiata dai contribuenti) e la magistratura no (che pure è un ramo della Pubblica Amministrazione). Per questo tanti  onesti cittadini, e tra questi Carlo Ruta, sono costretti a sostenere spese esorbitanti per ottenere (forse) giustizia tra chissà quanti anni. Mancata considerazione nell'amministrazione della giustizia delle condizioni - anche materiali - dei cittadini o banale protervia? Non saprei, ma Le consegno anche la sensazione più forte che ha suscitato in me la Sua (appelabile) sentenza:  io non mi sento meno libero perché Lei ha sancito che la pubblicazione di un blog (www.accaddeinsicilia.net) equivale a commettere reato. Anzi, mi ha stimolato ad aprirne e pubblicarne subito uno (claro.splinder.com) e di questo, caro Signor Giudice, le sono profondamente grato: nonostante Lei - e anche grazie a Lei - da oggi questo Paese è un po' più libero.

Paolo Fior
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