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Ragusa, Italia

25 giugno 2008 - Paolo Fior

- Che giorno è oggi?
- 15 febbraio
- Se fossimo in marzo potremmo festeggiare la Settimana Santa.
- Se lei vuole che siamo in marzo, chi può opporsi? Perché un mese deve avere trenta giorni? Se lei vuole può averne dieci o cento. Lei mi indichi la durata e noi la faremo rispettare!

(Manuel Scorza, Il Cavaliere Insonne, Feltrinelli 1981)

Ragusa non l'ho mai vista se non in cartolina e fino a pochi anni fa non ne avevo praticamente mai sentito parlare, se non nei racconti di amici che c'erano passati nel corso di una vacanza. Quasi mai la città e la sua provincia sono balzate alle cronache nazionali, meno che mai a quelle finanziarie. Le poche volte che mi è capitato di leggerne si trattava quasi sempre di ritratti edificanti che narravano una storia diversa da quella della Sicilia che conosco, per quel poco che conosco. Voglio dire la Sicilia occidentale, il trapanese, dove ho anche lavorato per un brevissimo periodo. Palermo e Catania; Agrigento.
Nel 2005, facendo una ricerca sulle banche, mi sono imbattuto nel sito di Carlo Ruta e ho scoperto un universo di documenti, storie, testimonianze e inchieste di altissimo livello. Ho appreso dei guai giudiziari di Carlo e di altri che, come i soci della Banca popolare di Ragusa, avevano osato levare la propria voce contro la protervia dei notabili, denunciandone malefatte e ruberie. Ma siamo a Ragusa, Italia, luogo dove gli orologi sembrano essere stati colpiti da un terribile flagello, in tutto e per tutto simile a quello descritto da Scorza nel suo "ciclo andino". A comando dei notabili, sempre gli stessi, gli uomini possono diventare invisibili, il tempo si può fermare, o accelerare. E se qualcuno fa storie, denuncia, pretende giustizia, ci ritroviamo però  (ché nel Perù di Scorza finiva sempre in strage) nel Paese di Pinocchio:

Allora, preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale per denunziare al giudice i due malandrini che lo avevano derubato (...)
Pinocchio alla presenza del giudice raccontò per filo e per segno l'iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia. Il giudice ascoltò con molta benignità: prese vivissima arte al racconto; si intenerì, si commosse e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da gendarmi. Allora il giudice, accenando Pinocchio ai gendarmi, disse loro:
- Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione.

(Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, La Margherita Edizioni)

Ragusa è un problema democratico, innanzitutto, e la condanna per "stampa clandestina" comminata a Carlo dal tribunale di Modica lo conferma alla massima potenza. E' un dovere civile moltiplicare gli sforzi per dare la massima visibilità e risonanza a questo caso, per diffondere i fatti e accendere un riflettore non solo sul magistrato Agostino Fera e i suoi sodali, ma sull'incredibile intreccio di interessi e affari che di fatto governa Ragusa da decenni. Pensare però che Ragusa sia un caso isolato sarebbe consolatorio e del tutto fuori dalla realtà. Ragusa è Italia, magari un caso limite, ma Italia. Da dove scrivo io, da dove lavoro (Milano), è un pezzo che vedo i sintomi di quel "flagello degli orologi" che ha colpito il capoluogo ibleo. Lo dimostra anche la cronaca di queste settimane con il caso sanità (la clinica Santa Rita e le altre nove strutture private sotto inchiesta) che divide la stampa e lascia annichilita la cosiddetta opinione pubblica, per non parlare del banchetto che si prepara per l'expo 2015. Gli spazi per raccontare ciò che accade si fanno sempre più stretti. Con somma inquietudine trovo ancora attualissimo questo passo del 1961 che ci riguarda tutti, giornalisti e non:

"Scusate la lunghezza di questa lettera" scriveva un francese (o una francese) del gran settecento "poiché non ho avuto tempo di farla più corta". Ora io, per quanto riguarda l'osservanza di quella che è la buona regola di far corto anche un racconto, non posso dire mi sia mancato il tempo: ho impiegato addirittura un anno, da un'estate all'altra, per far più corto questo racconto; non intensamente, si capisce, ma in margine ad altri lavori e a ben altre preoccupazioni.
Ma il risultato cui questo mio lavoro di "cavare" voleva giungere era rivolto più che a dare misura, essenzialità e ritmo, al racconto, a parare le eventuali e possibili intolleranze di coloro che dalla mia rappresentazione potessero ritenersi, più o meno direttamente, colpiti. Perché in Italia, si sa, non si può scherzare né con i santi né con i fanti: e figuriamoci se, invece che scherzare, si vuol fare sul serio. Gli Stati Uniti d'America possono avere, nella narrativa e nei films, generali imbecilli, giudici corrotti e poliziotti farabutti. Anche l'Inghilterra, la Francia (almeno fino ad oggi), la Svezia e così via. L'italia non ne ha mai avuti, non ne ha, non ne avrà mai. Così è. E bisogna, come dice Giusti di quegli ambasciatori cui Barnabò Visconti fece ingollare una bolla, cartapecora e piombi di sigillo, bisogna striderci.
Non mi sento eroico al punto di sfidare imputazioni di oltraggio e vilipendio; non mi sento di farlo deliberatamente. Perciò, quando mi sono accorto che la mia immaginazione non aveva tenuto nel dovuto conto i limiti che le leggi dello Stato e, più che le leggi, la suscettibilità di coloro che le fanno rispettare impongono, mi sono dato a cavare, a cavare.
Sostanzialmente, dalla prima alla seconda stesura, la linea del racconto è rimasta immutata; è scomparso qualche personaggio, qualche altro si è ritirato nell'anonimo, qualche sequenza è caduta. Può darsi il racconto ne abbia guadagnato. Ma è certo, comunque, che non l'ho scritto con quella piena libertà di cui uno scrittore (e mi dico scrittore soltanto per il fatto che mi trovo a scrivere) dovrebbe sempre godere.
Inutile dire che non c'è nel racconto personaggio o fatto che abbia rispondenza, se non fortuita, con persone esistenti o fatti accaduti.

(Leonardo Sciascia, nota finale a "Il Giorno della civetta", 1961)

 

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