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Sette giorni fra media e razzismo / 9

La reprimenda del presidente russo Medvedev ai giornalista che criminalizzano le popolazioni del Caucaso: "Non generalizzate, usate parole corrette, non criminalizzate la gente". E un articolo di cronaca sui soliti "nomadi"
8 aprile 2010 - l. g.

E' Russia, ma suona familiare

Come si vede dalla notizia d'agenzia riportata qui sotto, la questione della discriminazione a mezzo stampa delle minoranze, non è un problema solo italiano. Il presidente russo, Dmitri Medvedev, pur in giornate difficili dopo gli attentati terroristici avvenuti a Mosca, ha avvertito la necessità di ammonire i media ad abbassare i toni, evitando di additare intere popolazioni - i "caucasici", gli "asiatici", insomma i non slavi - come pericolose e corresponsabili del clima di tensione suscitato dagli attentati suicidi. Non conosciamo direttamente i media russi, non sappiamo quale sia il tono dei srevizi televisivi e dei resoconti pubblicati dai maggiori media, ma le parole di Medvedev sembrano descrivere qualcosa che si è familiare: "È sbagliato", ha detto fra le altre cose, "confondere la lotta contro i delinquenti e le vite della gente normale", invitando i media a "usare parole corrette" e a "non insultare la gente". Anche da noi, in tutt'altro contesto, è accaduto più volte di assistere a campagne mediatiche che avrebbero meritato ammonimenti simili: pensiamo a quelle contro i romeni fra 2007 e 2008, a quelle ricorrenti e possiamo dire quotidiane riguardanti i rom, ma anche al tono dell'informazione sugli immigrati.

Dmitri Medvedev

Com'è noto in Russia vige un regime formalmente democratico ma dai connotati decisamente autoritari e i media non dimostrano indipendenza e autonomia rispetto al potere politico, tutt'altro. Perciò la familiarità suscitata dall'intervento di Medvedev è doppiamente allarmante. Oltretutto da noi non è mai accaduto che un leader politico di rango si sia espresso in termini così perentori.

RUSSIA: ATTENTATI; MEDVEDEV A MEDIA, NON INSULTATE CAUCASICI

PRESIDENTE: MAGGIORANZA ONESTA, CAUCASO FA PARTE DEL PAESE

(ANSA) - MOSCA, 1 APR - Il presidente russo Dmitri Medvedev ha ammonito i media a non dividere e indebolire la società nella copertura degli attacchi terroristici, criminalizzando tutti gli abitanti del Caucaso del Nord che, ha sottolineato, «non è una provincia straniera, è il nostro Paese».

«Credo che i nostri media non dovrebbero dividere la società nella guerra al terrore, altrimenti diventeremo più deboli e ci trasformeremo in un caos piuttosto che in una nazione che sta rinascendo», ha esordito Medvedev in una riunione nella capitale daghestana a Makhackala. «È sbagliato confondere la lotta contro i delinquenti e le vite della gente normale», ha proseguito. «Questo è immorale e semplicemente disgustoso. Non esiste in nessun Paese, almeno in quelli civilizzati che cercano di combattere il terrorismo», ha aggiunto il capo del Cremlino. «Questa è una questione di cultura, e vorrei che i giornalisti, che fanno un lavoro molto importante, facessero attenzione a ciò», ha ammonito.

La gente che vive nel Caucaso del Nord, ha sottolineato, «è il nostro popolo, esattamente come qualsiasi altro cittadino russo». «Questa - ha ribadito Medvedev - non è una provincia straniera. Questo è il nostro Paese. La stragrande maggioranza delle persone che vivono qui sono oneste e rispettabili, come pure ci sono delinquenti», al pari di altre parti del Paese, ha concluso, invitando i media a usare «parole corrette» e a «non insultare la gente».

In alcuni media russi, come del resto in ampi settori della società, esiste una malcelata forma di razzismo nei confronti dei non slavi che vivono in Russia o nelle ex repubbliche sovietiche: caucasici, asiatici, spesso chiamati «musi neri» e bersaglio delle aggressioni dei naziskin. Dopo il recente attentato alla metro di Mosca, è cresciuto il clima di ostilità e sospetto nei confronti dei caucasici, alcuni dei quali insultati o aggrediti in strada o nella metro. (ANSA).

 

Nomadi e no

Una sostenitrice di Giornalisti contro il razzismo segnala un articolo uscito sul Tirreno di Livorno il 6 aprile (vedi l'allegato). Si riferisce della denuncia di un furto che sarebbe avvenuto in chiesa a danno di un diacono. Il titolo, assai gridato, afferma perentorio: "Dieci nomadi derubano il diacono". Per "nomadi", pare di capire, s'intendono dei cittadini romeni appartenenti alla minoranza rom, e magari (come nella quasi totalità dei casi) si tratta di persone assolutamente stanziali, ma l'articolo non fornisce delucidazioni in merito. Come sappiamo, su questo punto i media italiani sono piuttosto tetragoni: nomade, rom, zingaro sono considerati quasi sempre sinonimi, a prescindere dai significati di ciascun termine e dall'accezione discriminatoria che possono assumere. Anche le circostanze del furto sono piuttosto vaghe: c'è un sospetto di furto e non un furto accertato da parte del gruppo, ma nei titoli sembra tutto accertato e verificato. Sotto questo profilo, il Tirreno non fa eccezione: questo tipo di "cronaca" è la regola quando si parla di rom, popolo paria e poco abituato a reagire agli articoli che li descrivono sotto una cattiva luce o che attribuiscono a tutti eventuali reati o la cattiva condotta di alcuni. Più o meno consapevolmente, insomma, nelle redazioni si scrive e si sentenzia sapendo di non dover rendere conto a nessuno, nella certezza che non ci saranno il giorno dopo proteste o lettere al direttore firmate dalle persone coinvolte nelle cronache o dalle associazioni del gruppo umano interessato (anche se qualcosa, su questo punto, sta cambiando, nel senso che alcune associazioni romanì hanno cominciato a farsi sentire).

Quando lanciammo la nostra campagna, suggerimmo a tutti - noi compresi, ovviamente - un piccolo esercizio, cioè sostituire la parola rom con la parola ebreo e vedere l'effetto che fa. In questo caso avremmo un titolo così: "Dieci ebrei derubano il diacono", per non parlare dell'accostamento degli "ebrei" ai "balordi" e ai ladri che avrebbero agito in chiesa ma che nessuno, evidentemente, è riuscito ad identificare. Ma il parroco, si legge, punta il dito contro "un gruppo di giudei" (nel pezzo si parla di "zingari") che si sarebbe installato sul sagrato della chiesa. Quanti sono questi ebrei-zingari? Chi sono? Hanno un nome? Sono gli stessi da un anno? Suona tutto molto male, ne converranno anche i colleghi del Tirreno. Qui, naturalmente, non si tratta di mettere sul bancone degli imputati un cronista o una testata, ma di cogliere nella prassi giornalistica corrente l'esistenza di stereotipi professionali che condizionano l'azione di tutti. Sono comportamenti che vanno assolutamente corretti: per prima cosa, è necessario riconoscerli e metterli in discussione.

8 aprile 2010

 

 

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