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Cari direttori dei tg, smettete di chiamarli clandestini

La lettera aperta di Luigi Manconi ai direttori dei telegiornali Rai, Mediaset e La7. L'uso di quel termine - dice l'ex sottosegretario - è "tre volte sbagliato, sotto il profilo giuridico, sociale e culturale"
26 gennaio 2009 - Luigi Manconi (presidente di A buon diritto)

Luigi Manconi, sociologo, editorialista, ex sottosegretario agli Interni, ha scritto una lettera aperta ai direttori dei telegiornali di Rai, Mediaset e La7 per sollecitare la loro adesione alla campagna che punta a mettere al bando la parola clandestino, lanciata da Giornalisti contro il razzismo e raccolta per prime dalle agenzie di stampa Dire e Redattore sociale.

Egregio Direttore,

mi permetto di segnalare alla sua sensibilità una questione solo in apparenza di poco conto e solo in apparenza formale. Ancora una volta, in occasione del più recente sbarco di stranieri nell’isola di Lampedusa, pressoché tutti i notiziari e tutte le testate (comprese quelle della carta stampata) hanno parlato di “clandestini”

 Mi permetto di dire che il termine utilizzato è tre volte sbagliato: sotto il profilo giuridico, sociale e culturale. Nella gran parte dei casi, coloro che vengono chiamati clandestini sono, in realtà, responsabili NON DI UN REATO, bensì esclusivamente di un illecito amministrativo, in quanto hanno violato le norme sull’ingresso e la permanenza sul territorio italiano.

Nel caso di coloro che vengono fermati nei pressi delle acque territoriali italiane quell’illecito non è stato ancora commesso e non è neppure certo, sotto il profilo squisitamente giuridico, che verrà commesso, dal momento che essi vengono raccolti e trasportati nel nostro territorio da operatori e funzionari dell’amministrazione pubblica italiana.

 Sotto il profilo sociale quel termine, oltre che improprio, può risultare discriminatorio perché enfatizza, della questione dell’immigrazione,  il solo aspetto della illegalità (se non del crimine), assimilando a quest’ultimo gli stranieri “non in regola con i documenti” e, per estensione, gli stranieri tutti.

Sul piano culturale poi quel termine contribuisce a produrre disastri. Lo dico non in nome di un astratto ossequio al “politicamente corretto”, bensì perché consapevole, come lei, del fatto che la lingua non è puro suono: è una costruzione potente che condiziona il senso comune e la mentalità condivisa; e l’uso irresponsabile del termine “clandestino” contribuisce a incrementare l’ansia collettiva e l’allarme sociale.

E non va dimenticato che una parte significativa di immigrati non in regola è costituita da esuli (da condizioni di guerra e di guerra civile o di persecuzioni per ragioni politiche, etniche, religiose…), che chiedono protezione e che – faticosamente, troppo faticosamente – possono ottenerla.

Infine: il termine “clandestino” ancor meno si addice a quegli infelici (uomini, donne e bambini) illuminati a giorno da fari potenti, che agitano braccia e cenci e che invocano aiuto: visibili, visibilissimi.

Capisco, ma davvero, tutte le esigenze dell’informazione e gli imperativi della sintesi e della comprensibilità, ma con un piccolo sforzo (e con qualche frazione infinitesimale di tempo in più), si può evitare di bollare gli immigrati, compresi quelli irregolari, con un marchio mortificante così, peraltro, è stato richiesto, prima che da me, da alcune agenzie di stampa. Conto su una sua risposta positiva e le auguro Buon Anno e buon lavoro.


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